29 Maggio
Ok, non aspettatevi che questo articolo non sia
sentimentale. Come potrebbe non esserlo? Sto parlando del mio arrivo,nella mia
terra, dopo 40 giorni di cammino. 40 giorni nati proprio per culminare
qui. Seduto sul ciglio di quella strada,
la vedevo sdraiata placida, come la si può osservare se si guarda da Ovest
verso Est. Una sola linea di case che ripercorrono morfologicamente la cima
della montagna. Albidona guarda al mare e ne prende tutta l’aria. Volge le
spalle ai monti per ripararsi dal freddo del Pollino. Dorme , lì, a cavallo di
tre dorsi, spalmata sovrastando tre fiumi che ne portano le acque verso il
mare. Chissà quanto sarà croce e chissà quanto sarà delizia questo posto che
come tanti altri sembra non sottostare alle leggi del tempo, a volte mantenendo
le ancestrali “crianza” e benevolenza, ormai estinte altrove, a volte correndo
troppo prendendo tutto ciò che c’è di peggio dal mondo esterno.
Da Alessandria ad Albidona ci vogliono due ore e mezza di
cammino, non di più. Caterina ci prepara un ricco pranzo e verso le due del
pomeriggio ci incamminiamo. No, non sono solo. Con me ci sono mio fratelllo
Angelo ed il mio amico Mario che ha deciso di accompagnarmi, oltre che
ospitarmi in quest’ultima tappa. E chi la sente la fatica? La strada scivola sotto
ai piedi. Quasi camminerei scalzo per quanto è morbida, quasi inesistente. Già dai
primissimi chilometri inizio ad intuire che ad Albidona c’è fermento. Arrivano strane
telefonate e mio fratello non è del tutto sincero nonostante, difatti, non riesca a nascondere il suo coinvolgimento
nell’organizzazione di un “qualcosa”. Infatti ad un certo punto ci lascia perché
richiamato al “quartier generale”. Con Mario intratteniamo un discorso molto
attuale e profondo, quello della “possibilità di fare”. “vedi, non avrei mai
immaginato di fare Alessandria-Albidona a piedi, anche per una questione
fisica, invece oggi ho capito che se vuoi, con i giusti stimoli, puoi” mi dice.
Questo concetto si estende al nostro meridione, alle nostre terre, dove le
massive partenze, certe volte, non sono
del tutto giustificate e più che esser frutto di una impossibilità, sono il
risultato di una staticità, l’attesa di un qualcosa che di certo non arriva se
non te lo vai a prendere. Non viviamo un territorio ricco di lavoro, in cui
ognuno, prima o poi avrà la sua fetta di torta. Questo però non può farci
pensare che non ci siano possibilità. Difatti negli ultimi tempi mi imbatto
sempre più spesso in persone che dopo essere partite per cercare lavoro (non
specializzato) altrove, mi confidano il loro malessere e vedo riaffiorare in
loro uno spirito di iniziativa e di fiducia nel proprio territorio che mai
avevano osato mostrare prima, quando questo territorio lo vivevano. Meglio
tardi che mai!
Percorriamo le ultime curve e veniamo intercettati da molte
persone che lungo la strada hanno delle piccole case di campagna. Un abbraccio,
un bicchiere di vino, un “bentornato a casa” preannunciano la grande
accoglienza riservatami.
Non so cosa abbia attratto di più del mio viaggio. Sicuramente
l’insolito mezzo di trasporto per questa lunga distanza ha giocato un ruolo
fondamentale nella diffusione e nel coinvolgimento , ma credo sia stato il
messaggio implicito a dare maggior impatto. In una terra che perde decine di
persone ogni anno, come un tremendo stillicidio, avere la consapevolezza di uno
che invece ritorna, porta grandi domande. Domande a cui credo ognuno abbia
cercato di dare risposte. Domande che hanno risvegliato inevitabilmente un pensiero
critico o comunque uno sguardo alla realtà dei fatti. Avere followers non mi ha
mai interessato, se non per divulgare una semplice ed elementare domanda: “è
davvero impossibile vivere qui?”
Qualcuno mi ha fatto notare che in tutte le interviste che
ho fatto, mi schiarisco la voce ogni 20 secondi. Quando non sono a mio agio, il
mio corpo reagisce seccandomi la bocca. Il mio disagio era sempre dovuto allo
stesso quesito: “ma perché vogliono intervistarmi? Ho davvero cose interessanti
da dire?”
Girata l’ultima curva, in lontananza noto una lunga fila di
persone appoggiata alla ringhiera che sovrasta la strada d’ingresso al paese. Qualche
striscione. Delle emozionanti foto. Ad aspettarmi c’erano davvero tutti:
bambini, anziani, giovani e adulti. Tutti pieni di curiosità e gioia, pronti a
stringermi la mano, ad intercettarmi per intuire cosa abbia significato per me
tutto questo. Per otto anni ho guardato quelle strade e quelle case con gli
occhi di chi da lì al massimo 30 giorni, se ne sarebbe andato. Guardarle oggi
con la consapevolezza di restare mi ha riempito di vita.
Gli abbracci sono stati infiniti. In piazza San Pietro la mia
famiglia al completo, gli amici e tutta la comunità per un giorno unita attorno
a me. Per una buona mezz’ora sono rimasto seduto di fianco al palco preparato
per me. In disparte, appoggiato ad un muro rivivevo con dei flashback tutto il
mio cammino. Il dolore dei primi 5 giorni, la gambe che sembravano staccarsi
dal corpo, le nottate sempre corte, i messaggi di incoraggiamento, gli stupendi
paesaggi, la gioia, la noia, il freddo ed il caldo, le fantastiche persone incontrate,
le realtà vissute, le mucche , i cinghiali, le montagne, le pianure, la
tristezza, le lacrime, i sorrisi, gli orizzonti, l’asfalto, la terra, le
macchine, la spazzatura, i fiori, i campi, le pietre , la stanchezza, le cene,
i chilometri…
Finito questo viaggio, ne inizia un altro o forse inizia
proprio il viaggio vero. Vivere qui, guadagnarsi uno spazio, pensare ed
intraprendere percorsi che possano essere vantaggiosi per il paese e la
comunità. Ad un anno di distanza, giorno in cui scrivo queste parole, ho capito
tante cose di questo territorio e del sud Italia in generale. Ma un articolo
non basta, servirà un libro intero…
Grazie a chiunque si sia accostato, in qualsiasi modo, al
mio viaggio