Senise, Noepoli, San Costantino Albanese, Terranova del Pollino, Alessandria del Carretto: la strada verso casa


Camminare in Basilicata è un’esperienza che , estrapolata dal mio viaggio, consiglierei a tutti. Non è semplice incontrare in circa 180 km (tanti sono quelli che dividono Castelgrande da Terranova del Pollino)una biodiversità così ampia e territori così eterogenei che ti fanno passare dall’Arizona alla Norvegia nel giro di qualche ora. E poi le storie…così diverse, così lontane, così paradossali, a volte. Di tutte le regioni attraversate è sicuramente quella che mi ha colpito di più.
Da Sant’Arcangelo a Senise, l’ambiante parte arido ma proseguendo si inizia ad intuire una grande presenza di acqua. Colture, irrigazioni e bestiame  sono la metafora dell’ancestrale ricerca dell’acqua. Ai piedi di Senise, infatti, sorge la grande diga del Monte Cutugno, le cui acque irrorano anche parte del nord Calabria. Quando ero piccolo, in paese da me a vendere la frutta veniva “U sinisar” ovvero il “senisese” e solo a 28 anni collego le due cose: Senise è famosa per le colture, in particolare quella del Peperone di Senise IGP. Apro parentesi socio-antropologica, ogni volta che nel sud Italia si parla di prodotto DOP, DOC o IGP la frase che segue è: “Eh ma l’originale non è questo, l’originale non si trova più” oppure “eh ma l’originale mica è di qui, l’originale era di un altro posto ma poi per volere politico lo hanno spostato qui”. Ma come? Il prodotto ottiene la denominazione e poi scompare? Come  è possibile? E come è possibile che se è di un luogo gli danno la denominazione in un altro? Di questi discorsi ne ho sentiti troppi. Sarà sempre speculazione o forse forse ci mettiamo del nostro per screditare qualcosa, qualcuno o un luogo che ce l’ha fatta? Banfield, motore di questo viaggio, mi ritorna sempre in mente!
Senise ha come simbolo una lupa, cosa abbastanza strana. Indago e scopro che la leggenda vuole che il nome derivi da Siena, ovvero da un cavaliere senese che la fondò lungo il suo viaggio per le crociate e visto che il simbolo di Siena è una lupa, la piccola cittadina lucana ne prese l’effige. La ricca storia di Senise, però, è da ricondurre ad un periodo ben lontano dalle crociate (e forse anche fuori rotta visto che il porto di partenza principale era Brindisi). Ben più auspicabile è l’etimologia che lega il nome al sottostante fiume Sinni.
A Senise incontro la proloco e l’appuntamento è all’hotel Villa del Lago, dei fratelli Uccelli. Una lunga storia che inizia dal padre che caparbiamente mette la prima pietra di questo hotel a poche centinaia di metri dall’invaso. Un bellissimo albergo che i figli portano avanti tra le mille difficoltà  derivanti dal proliferare di ostelli, bnb o airbnb. La signora Roseti, presidentessa della Proloco mi accoglie  con altri componenti dell’associazione e con un agricoltore locale, produttore del peperone che lamenta più o meno le stesse cose che hanno lamentato tutti i contadini nel mio viaggio, e principalmente l’impossibilità di cooperare e la lontananza dell’istituzione . Tanta potenzialità ma poco risultato.
A Senise ricevo la visita dei miei genitori. Non li vedevo da 34 giorni. Spettatori attenti di questo mio viaggio. Gente libera che mi ha insegnato il valore della libertà.
L’indomani mattina piove a dirotto. La mia meta è Noepoli dove mi aspetta l’amico Paolo Cirigliano. Il paesaggio che attraverso è degno di uno scenario post-bellico. A dividere Senise da Noepoli c’è il fiume Sinni che si getta nell’invaso del monte Cotugno. Un vecchio ponte ormai diroccato e prossimo alla scomparsa attraversa il letto del fiume che sotto di me scorre mite sulle pietre bianche. Il ponte diventa sempre più esile verso il centro. Alle macchine è naturalmente vietato l’attraversamento ma anche a piedi c’è da fare attenzione. Trovarsi sopra il letto di un fiume, largo più di 200 metri ti da il senso del vuoto. Ho sospettato di soffrire di agorafobia trovandomi lì, unico essere animato in mezzo ad una immensa distesa di massi.

Contattare le associazioni di Noepoli non è stato semplice, anzi è stato impossibile. Il comune più o meno lo stesso. Ho dovuto quindi affidarmi a qualche amicizia sul territorio e sono arrivato a Paolo, un fornaio un po’ rockettaro che ogni mattina si alza alle 3 per infornare. Grazie a lui entro in contatto con l’assessore alla cultura del paesino Lucano, Maddalena Angiolillo. Maddalena è un avvocato. Ha molto a cuore Noepoli e mi racconta la storia del piccolo borgo  che portava il nome di Noja e che fu, nel medioevo, Demanio Regio, premiato per la sua neutralità. Una serie di effigi poste alle porte del paese ne racconta la storia. Con Maddalena discutiamo della possibilità di fare cultura nei paesini del nostro Sud e di usare la cultura come mezzo di sviluppo. Conveniamo che l’enorme calo demografico rende difficile la sussistenza di un substrato sociale di alto livello culturale, che resta appannaggio di pochi che troppo spesso sono costretti a restar chiusi nel loro mondo. L’argomento è molto complicato ma secondo me resta alla base di un mancato sviluppo. Incontriamo per caso Vincenzo Blumetti. Lui ha la mia età, è un artista, si è formato e vive a Napoli. La sua pittura riesce a fondere il realismo coi colori del futurismo. Discutiamo tanto di giovani, di possibilità, prospettive. Per Vincenzo, per la sua arte, per il suo modo di intendere la vita, tornare a Noepoli potrebbe essere riduttivo e limitante. Come dargli torto .  Molto spesso in questi piccoli agglomerati urbani non c’è spazio a sufficienza per un artista e, considerazione mia, a parte le possibilità , certe volte ci si può sentire molto soli. Insieme ai miei due Ciceroni andiamo a trovare Morena Rinaldi. Morena viveva a Novara. Ad un certo punto della sua vita decide di tornare qui a Noepoli e partendo da un piccolo investimento (che poi si ingrandirà) fonda un pastificio a conduzione unica, lavorando grani antichi e sperimentando sempre combinazioni nuove. Ha visto nel piccolo una possibilità, con sacrificio l’ha raccolta ed ora la sua pasta arriva in Puglia, in Calabria ed oltre. Senza saperlo, la sera precedente ho mangiato la sua pasta, coi peperoni “Cruschi”, naturalmente.
A cena siamo tutti insieme e conosco un altro componente dell’amministrazione,Nino Tedeschi, dottore in agraria. L’argomento di cui discuto con lui fa parte di quelle opportunità per ripartire qui al Sud ed è naturalmente l’agricoltura. Con lui però parliamo di filosofia agricola, dello strano modo di concepire l’agricoltura sia da parte del produttore che del legislatore. Prima di tutto il problema nell’agricoltura delle nostre zone è che si è sempre badato alla quantità piuttosto che alla qualità e quindi non abbiamo avuto mai una filiera di prodotti che potessero godere di uno standard di alto livello. La legislazione, dal canto suo, è sempre stata garantista ed allo stesso tempo poco lungimirante con questi luoghi, come quando pagava un’integrazione per NON coltivare i terreni, che adesso, dopo decenni, sono quasi inutilizzabili.


La prossima tappa è San Costantino Albanese. Per arrivarci percorro la strada vicinale “Corso del cavallo” che attraversa un immenso bosco di querce  sulla sommità di un monte la cui cresta è quasi completamente piatta. Scendo a San Costantino dagli stretti tornanti. Il paesino di cultura Arebreshe  di circa 500 anime è adagiato quasi sul fiume Sarmento che mi divide dal complesso montuoso a cui appartiene Albidona! Qui sono ospite di Quirino Valvano, amico di vecchia data, costruttore e suonatore di Zampogna lucana oltre che di un sacco di altri strumenti, guida escursionistica ed amante della natura. Quirino non vive in paese, bensì in mezzo ad un bosco. Si è costruito la casa con le sue mani, coltiva l’orto e per spostarsi usa la bici, un vero greenfriend. Qui a San Costantino non faccio ricerca. Sono venuto a trovare un amico ed a riposarmi in questo paradiso.


L’indomani mattina mi incammino per Terranova del Pollino. Un ramo della mia famiglia è originario di questo paese situato appena sotto le cime più alte del Pollino. Leggenda narra che Terranova fu fondata da un esule albidonese che uccise il signorotto del paese che rivendicava la ius primae noctis nei confronti della sua novella sposa. Scappò con la coscia di un capretto, che adesso è piatto tipico di Terranova e viene chiamato “La coscia della sposa”. A raccontarmi questa storia è Federico Valicenti , chef e proprietario del ristorante "La luna rossa".  Ad aspettarmi trovo Pasquale Larocca, guida alpina, mountainbikers agonista,  Rossella di Girolamo, giovane assessore della giunta comunale, Silvia di Taranto e Maria Antonietta Genovese. Pasquale organizza gare di downhill e giornate di ciclo escursionismo e nel 2016 è riuscito ad inserire Terranova nel circuito nazionale di Mountainbike con un arrivo di tappa. Il clima qui è euforico, oggi è festa, forse la più importante del paese: è la festa dell’abete! Un albero di abete viene portato dalla montagna in paese, trainato da una coppia di buoi, il quale verrà poi issato il 13 di Giugno, giorno di Sant’Antonio. Oggi qui si fa solo festa, parlare di sociologia ed antropologia è un po’ difficile ma in compenso la vivo in prima persone guardando i volti protagonisti di questa ricorrenza. Qui a Terranova sono ospite dell’agriturismo “La Garavina” di Rocco Tufaro e della sua famiglia. L’agriturismo è in un posto incantato immerso nel verde. I Figli di Rocco, Isabella e Luca, lavorano qui ed hanno deciso di restare qui a Terranova nell’impresa di famiglia. La produzione è propria, proprio come vuole il disciplinare degli agriturismi, ed ogni particolare è curato per offrire un soggiorno esperienziale totale.  Con Rocco ed Isabella Parliamo del mio viaggio, del loro agriturismo, delle difficoltà ma anche delle aspettative e dei progetti futuri. Mettono sul piatto tutta la loro intraprendenza si schierano tra quelli che restano qui per far crescere il territorio.

La strada che divide Terranova da Alessandria è una strada di madonnari. Tutti i miei compaesani, fino ad un paio di generazioni fa, l’hanno percorsa per arrivare al santuario della Madonna del Pollino, estremamente venerata da queste parti. La via di San Migàlio (San Michele) è estremamente ripida dato il dislivello che parte da 400 metri per arrivare ai 1000 di Alessandria. Alla fine del tragitto però, si scavalla ed in lontananza, a circa 13 km in linea d’aria, vedo Albidona…dopo 39 giorni. L’ emozione è forte, mi siedo per circa un’ora, mangio un paio di arance e la miro in lontananza. Ho pianto qualche lacrima. Ero davvero vicino ormai.

Prima di volgere ad Albidona, un’altra tappa costella il mio cammino: Alessandria del Carretto. Alessandria è dietro casa. Paese che soffre uno spopolamento peggiore di quello di Albidona ma che riesce a mantenere una radicalità ed uno spirito di resistenza ed iniziativa davvero ragguardevole. Qui ho molti amici, in particolare la famiglia La Rocca. Nino è stato un grande promotore del mio viaggio, costantemente informato. Con lui le lunghe chiacchierate sul Sud, sull’amore per i nostri luoghi si sono tramutate in concetti precisi da mettere in pratica e da dimostrare in questi 587km. Mario  e la moglie Caterina mi ospitano materialmente a casa loro, condividendo la mia gioia dell’essere così vicino alla mia. Ad Alessandria mi aspetta anche mio fratello Angelo. Fu lui, in effetti, a spingermi verso questo viaggio formulando, di fronte ai miei dubbi sul cammino di Santiago, una domanda molto semplice: “ma visto che hai deciso di tornare a vivere giù e di camminare, perché non torni a piedi a casa?”. Quella fu una delle domande più significative della mia vita e tra qualche decennio lo ringrazierò ancora per avermela fatta. Qui incontro anche la mia compaesana Maria che nel classico stile albidonese mi ospita a casa sua e le care amiche Isabella e Giovanna che col loro dolce sorriso mi accolgono ad un passo da Albidona. Questo viaggio che volge al termine ha coinvolto proprio tutti, in maniera trasversale. Forse ho dato vita ai pensieri di molti, forse ho dato speranza a qualcuno o forse, più semplicemente ho incuriosito. Ad ogni modo vedere e sentire le centinaia di persone toccate da questa mia fantastica esperienza mi ha inorgoglito e mi ha fatto pensare che forse davvero c’è una speranza. Nel pomeriggio vengo raggiunto da un altro drappello di amici e parenti e con alcuni componenti della giunta comunale condividiamo l’ultima cena fuori casa.


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