Corleto Perticara: Paradigma dell'ospitalità

19-23 Maggio

La base filosofica di questo viaggio è l’ospitalità. Tra visione romantica della cosa e miti meridionali, di cui ci circondiamo troppo spesso per sostituire o compensare i nostri limiti, ho saggiato sul campo quello che definirei un vero e proprio sentimento. Sì perché ospitalità per me non significa solamente offrire un letto ed un pasto ma includere, nelle sfaccettature della propria vita, per un periodo limitato nel tempo, un’altra persona. Quindi quando qualcuno ospita va ben oltre la risoluzione del problema della sopravvivenza entrando nell’ambito dell’inclusione e quindi della condivisione, elemento essenziale per la sopravvivenza stessa. “non di solo pane vive l’uomo”, diceva Gesù di Nazareth. La citazione è volutamente tronca in quanto non ritengo sia questo l’ambito giusto per discutere di verità teologali ma la prima parte rispecchia in maniera limpida quale, per me e per tanti che mi hanno accolto, sia il vero significato di ospitalità.
Quando ho proposto il mio progetto alle persone ed alle associazioni, chiedendo ospitalità, mi sono sempre preoccupato del “do ut des”, ovvero: io vi chiedo questo ma vi do quest’altro in cambio. Nella fattispecie la stesura di questo stesso libro. Il viaggio mi avrebbe poi rivelato che non ci sarebbe stato bisogno di questo dare/avere, perché il sentimento di ospitalità è insito e radicato nella cultura mediterranea e forse oggi si sta riscoprendo come un tempo. Questo libro, dunque, assume più una forma di ringraziamento a posteriori piuttosto che un mero accordo a priori. Ci sono state sicuramente ospitalità formali, fredde e distaccate, ed ospitalità piene, calde ed informali. In moltissimi casi mi è sembrato di stare in famiglia ed il mio passaggio è stata occasione per la nascita di rapporti che vanno ben oltre la ricerca socio-antropologica.
Corleto Perticara, da questo punto di vista è stata paradigmatica. Avevo intuito la forte adesione al progetto sin dalla prima email mandata ai vari presidenti Pro Loco, il 13 Gennaio. Anthony Gallo, giovanissimo presidente della proloco di Corleto Perticara rispondeva dopo 14 secondi (no, non sto esagerando) con un messaggio wattsapp: “Ciao Michele, ho letto la tua mail! In che modo posso esserti di aiuto?”. Erano le primissime email che mandavo ed Anthony, con questa celere risposta, mi ha illuso che tutti sarebbero stati così pronti. Cosa che poi non si è rivelata, costringendomi a rimandare il viaggio di due mesi. Anthony si mette dunque a completa disposizione. Si può dire che buona parte del percorso l’abbiamo preparata insieme. Grazie a lui ho risolto alcuni annosi problemi logistici e grazie a lui sono arrivato ad avere l’appoggio economico e morale della UNPLI BASILICATA, capeggiata dal dott. Rocco Franciosa. Il mio arrivo a Corleto, dopo i 19 Km che la dividono da Laurenzana, l’avevo vissuto tante volte nella mia vita quando a casa arrivava il parente dall’America od il cugino, figlio dello zio emigrante. Insomma, è stato come arrivare a casa di zia! La famiglia Gallo mi aspetta con una tavola imbandita, piena di pizza sfornata quindici minuti prima. Un affetto incondizionato, non curante del fatto che sino a tre secondi prima non ci conoscevamo nemmeno. Un qualcosa di ancestrale che mi riporta alla mente l’antica usanza del posto vuoto a tavola, pronto e a disposizione dello sconosciuto viandante. A Corleto avevo programmato una sosta di due giorni ma il caso ha voluto che restassi lì per cinque! Infatti la tappa precedente a Corleto, ovvero Laurenzana e le due tappe successive, Armento e Gallicchio per motivi che ormai non è opportuno spiegare qui, saltano, lasciandomi nel vuoto. A quanto pare, però, la caduta non è fragorosa, anzi casco su un materasso bello largo.
Corleto Perticara è un comune di 2500 abitanti nel pieno centro della Basilicata. Svetta sulla Val d’Agri a 750 m.s.l.m. L’origine è probabilmente romana ma di sicuro da qui ci sono passati gli arabi: il campanile della chiesa sembra più un minareto che un simbolo della cristianità. A Corleto c’arrivo da sopra, e da questa altitudine mi è molto semplice scorgere, sulla cresta della montagna opposta, un enorme agglomerato di tubi e ferro, dominato da un’altissima ciminiera. Io lo so cos’è. Ne avevo sentito parlare nelle tappe precedenti ma vederlo dal vivo ti toglie il fiato. È “Tempa Rossa”, il centro di estrazione petrolifera della francese Total, in fase di costruzione. L’estrattore è circondato da pale eoliche alte perlomeno 70m. Una contraddizione in termini che va ad aprire obbligatoriamente una delle pagine più controverse del mio viaggio. Questa è la prima cosa di cui parliamo con Anthony. Lui è uno studente di Belle Arti a Napoli, quindi ama il bello, la natura e l’essenziale. Il suo giudizio non può che essere negativo nei confronti di questa politica brutta, antinaturalistica, superficiale ma che assume  un effetto placebo nella popolazione. Una delle scene più impressionanti del mio viaggio l’ho vissuta proprio a Corleto, attorno alle 17, sulla piazza principale: almeno centocinquanta uomini vestiti in arancione catalifrangente, operai della Total di ritorno dal lavoro, tutti impiegati a Tempa Rossa, tutti residenti a Corleto. In quel momento ho pensato a tante cose. Com’è possibile? Come fanno a non capire? Come possono permetterlo? Si è appena scoperto che le cisterne del vicinissimo centro oli di Viggiano hanno sversato nella falda petrolio per anni e loro si fanno costruire un altro estrattore? Dietro questa storia c’è tanto altro, tutti indizi che portano ad una conclusione unica: il popolo non è sovrano e forse non lo è mai stato e molte volte rinuncia felicemente al suo status da sovrano per una contropartita “tutto fumo”, un posto di lavoro, un posto di lavoro al figlio, un posto di lavoro al nipote, senza pensare che nella fattispecie un posto di lavoro del genere potrebbe significare la vita, la propria e quella degli altri. Questa vicenda apre uno squarcio sul modo paradossale di concepire il welfare in Italia.  Lo stato garantista deve garantire tutto e per garantire tutto deve attuare delle manovre abbastanza controproducenti nell’ottica logica, paesaggistica ed economica: crea lavoro. Il creare lavoro è un concetto ormai diventato scontato, sia da parte dello stato che del cittadino. Non è compito dello stato però creare lavoro. Più che altro sarebbe compito dello stato creare i presupposti affinché i cittadini creino lavoro. Per fare questo però bisognerebbe innescare una serie di meccanismi che implicherebbero prima di tutto impegno, poi dedizione, passione ed amore, concetti ormai lontani da chi da almeno due generazioni ha abbandonato la terra e viveva del proprio lavoro. Inoltre si sterilizzerebbe quel terreno in cui crescono beate corruzione, clientelismo e favoreggiamenti. Quindi via ad improbabili ponti sullo stretto, a pindariche autostrade (che a farle in Giappone ci impiegherebbero un anno ma qui i Italia ce ne mettiamo quaranta) a fantasmagoriche linee ferroviarie…fantasmagoriche perché i treni sopra mica ci transitano. È come se un padre di famiglia imbiancasse casa ogni sei mesi perché il figlio fa l’imbianchino. Un autogol terribile, i cui effimeri risultati positivi durano fino a quando la cassa e piena. Ogni manovra economica attuata per “salvare” il Sud (manco fossimo preda del malocchio) ha lo stesso odore di muffa. Mai una manovra, un decreto, una linea programmatica, una scuola che dica ad un bambino: “qual è il tuo sogno nella vita, fare il calzolaio come tuo nonno? Allora va, e diventa il calzolaio migliore del mondo”. Quasi ci fa schifo quello che eravamo. Gira e rigira però ci ritroviamo ad accettare Total che buca e svuota la Basilicata…lo schifo assoluto.
Di questo parlo anche col sindaco di Corleto, Antonio Massari. Antonio mi trasmette un mix di sentimenti, tra la rassegnazione e la propositività. Due mondi opposti che in questo caso convivono. Antonio mi dice che purtroppo la scelta di concedere terreno a Total fa parte di un piano nazionale e regionale (grande sostenitore del progetto è Marcello Pittella, presidente della regione Basilicata), quindi le mani sono legate ma almeno ci sono le royalties ed a Corleto cercano di spenderle in modo positivo. Un’altra cosa che fa riflettere del paese sono le tabelle con su i simboli di Total davanti a tutti gli edifici pubblici a segno che la ristrutturazione di tali stabili è stata possibile grazie a loro. Da queste parti si vocifera che a Viggiano (paese confinante, che prende royalties di Eni per il centro oli) rifanno i marciapiedi ogni anno e che i soldi sono stati congelati dal patto di stabilità. Piuttosto che arrivare a questo, a Corleto cercano di investire in cultura, sport, svago, verde pubblico ed ammodernamenti.

Soggiornare cinque giorni a Corleto mi da l’opportunità di visitare tutto il territorio, sempre insieme all’ottima compagnia dei miei nuovi amici. Infatti Anthony, Laura, Pina, Lucia, Carmela, Deodata, Carmine e tutti gli altri, non mi lasciano un attimo. Arricchisco il mio percorso di tappe non previste e che mi danno una visione più chiara del territorio. Visitiamo per prima Pietra Pertosa, ormai famosa per il Volo dell’angelo”, un cavo d’acciaio che la collega alla dirimpettaia Castelmezzano. Sono fermamente contrario ai macroattrattori perché distolgono l’attenzione dai reali ed originali punti di forza di un paese ma soprattutto creano un alibi per non cercarli, lavorarci e sfruttarli. Insomma, i macroattrattori sedano e non sono utili se prima non si lavora su quello che c’è già. Pietrapertosa, infatti, ha tantissimo da offrire. Gli austeri denti di Dolomia che la sovrastano, i panorami mozzafiato, il quartiere arabo “Arabata” che tanto mi è rimasto impresso. I ragazzi qui si muovono bene. Hanno creato delle cooperative che danno lavoro stagionale e riescono a restare a Pietrapertosa. Ritornando a Corleto passiamo dal sito di Tempa Rossa. Bene, per me l’inferno ha quest’aspetto.
Successivamente raggiungiamo Guardia Perticara. Il borgo è particolare per la sua strutturazione. Fu uno dei pochi paesini che nel post-sisma degli anni ’80 venne ricostruito rispondendo ai canoni di originalità. Le case sono state ricostruite e non delocalizzate. Pietra e coppi, come voleva la tradizione. Un gioiellino. Tutto ciò è stato possibile grazie all’architetto romano a cui fu affidata la riprogettazione. Una vera fortuna grazie alla quale, oggi, Guardia accoglie migliaia di turisti ogni anno. Ma i segni della contraddizione lucana non risparmiano nemmeno Guardia: di fronte, a 800 metri in linea d’aria, un’immensa discarica, che col vento a favore fa sentire tutta la sua presenza.
Trovandomi nel pieno centro della Basilicata ed avendo la possibilità di girare, due sono le tappe d’obbligo: Aliano e Craco. Aliano, sito di confino dello scrittore Carlo Levi. La suggestione nello stare qui non è dovuta semplicemente ai monumentali calanchi che creano profonde voragini nell’argilla ma più che altro al respirare la stessa aria, calpestare le stesse pietre e vedere le stesse cose, di uno scrittore a me molto caro, che come me descriveva quello che vedeva, in un Sud sempre disperato, sempre indietro, sempre autolesionista. Lui costretto, io per scelta.
Craco è il paese fantasma. La sua rovina è il capolavoro della Repubblica Italiana. Una di quelle cose che a farle apposta e progettarle è complicato. Una serie di scelte così stupide che un premio all’idiozia sarebbe stato davvero irrisorio. Negli anni ’60 Craco inizia a franare. Qualcuno ipotizza una rottura nel sistema idrico, altri, quelli “fighi”, dicono che è semplicemente la terra che si muove. Allora conteniamola. Viene eretto un muro di cemento armato profondo venti metri che dopo qualche giorno inizia a cedere. Crolla il muro e parte del paese, che si inizia a svuotare. Il caso interessa geologi ed ingegneri di tutto il mondo. La proposta di un geologo americano è semplice e a basso costo: riparare la rottura (si era proprio una rottura della rete idrica!), creare dei maxi terrazzamenti alla base del paese e piantare tanti alberi così da sostenere il terreno, non appesantirlo e farlo respirare. Tutto bello ma il costo è troppo basso. Si opta quindi per un progetto tutto made in Italy: un muro in cemento armato, sottostante al precedente, alto ben cinquanta metri e dal peso incalcolabile. Costo? 900 milioni di lire, anno 1972. L’onere, secondo la particolarissima ricetta italiana, lievita fino ad 1,3 miliardi. Risultato? La montagna si appesantisce così tanto che viene giù. Il paese si spopola quasi totalmente e viene dichiarato completamente inagibile nel 1980. Perché abbiamo fatto quel muro di cemento armato? Prima di tutto perché siamo dei superuomini che pensano che mai niente di disastroso accadrà. Due, per creare lavoro. Ecco come lo stato italiano crea lavoro, opere inutili, costose e dannose. A raccontarci questa cronaca è uno dei ragazzi dell’associazione che gestisce le visite guidate. A Craco è percorribile solo un tratto di strada. Lo spettacolo è sconvolgente non solo per l’ovvio scenario di abbandono ma anche per i segni dello sciacallaggio che ha colpito il borgo.
A Corleto ho la possibilità di vivere la quotidianità. Dal panettiere Giovanni Demma, che risponde in maniera impeccabile a quei desideri di fragranza ed odor di pane che ognuno di noi ha verso le 8 del mattino, dal barbiere Giovanni Carbone che ha l’onore e l’onere di tagliarmi la barba dopo circa un anno (non del tutto!), al bar a bere una birra. Questi momenti di “casa” vengono suggellati dalla visita, in terre lucane, di mio fratello Venanzio (primo stipite della cinquina consanguinea), mio cugino Lello e gli amici Pasquale e Leonardo. Sorpresa che mi riempie il petto come aria fresca. Con buon spirito paesano colonizziamo un bar e tiriamo fino a cena ridendo e scherzando, proprio come se fossi a casa. La sorpresa serale è indescrivibile. Alla “Baita”, seconda casa di Antony, che mi ha ospitato nelle ultime due notti, ad aspettarci ci sono circa trenta persone. Antony ha mobilitato  mezza Corleto per condividere con me, viandante con una meta ben precisa, gli ultimi attimi della mia sosta in questo splendido paese. Una torta finale sancisce il sodalizio tra me ed Antony, tra Albidona e Corleto.
L’indomani si riparte, devo dire con tristezza. Il commiato è di lacrime e da ancora indizi alla mia ricerca, che parla anche di ospitalità.

Ma la fine di un viaggio, scriveva Saramago, è solo l’inizio di un altro e i viaggiatori, con esso si prolungano in ricordo e narrazione. Questo viandante, che ha saputo battere quei sentieri sconosciuti , così cari al poeta greco Callimaco, e creare ponti di dialogo tra realtà seppur vicine, spesso distanti tra loro, ritornerà sui passi già dati, forse per ripeterli e per tracciarvi, a fianco, dei nuovi cammini

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