Non aspettatevi da questo mio scritto una nostalgica sviolinata su quanto sia bello, accogliente, familiare e perfetto il Sud. Quando mi capita di leggere testi del genere, a meno che non ne conosca l’autore e che quindi ne conosca le motivazioni più profonde e le idee, ci vedo sì dell’amore ma anche un notevole distacco dalla realtà. Tanti luoghi comuni, tante belle frasi strappa lacrime, tanta nostalgia improduttiva.
Circa un
anno fa, l’articolo di una testata interregionale scatenò la
bufera più cupa in una nota località balneare calabrese.
Quest’articolo parlava di due coppie in vacanza, a fine luglio (se
non erro), in suddetta anonima località che si lamentavano del
frastuono di una discoteca sulla spiaggia, alle 2 di notte, che non
faceva dormire loro ed i loro figli. Già la storia così com’è ha
dell’assurdo: cioè, vai in vacanza in un notissimo posto di mare,
dove l’economia si muove per 4 mesi l’anno, a fine Luglio e ti
lamenti della musica alta alle 2 del mattino? Amico mio, dovresti
scegliere meglio i posti di villeggiatura se hai queste richieste
legittime ma forse fuori luogo in un contesto simile.
La cosa
fantastica, però, è stata la risposta che è stata scelta, se non
sbaglio dalla stessa testata per rappresentare il “vaffa”, della
Calabria una ed unica a questi turisti. Devo dire che sui social
qualche risposta intelligente c’è stata. Ma no! Il calabrese è
sensibile (e permaloso) e quindi largo ai pianti: un articolone (che
riprendeva un post su facebook) su quanto fosse perfetta la Calabria,
sulla nostalgia di casa quando si è lontani, sul sole tutto l’anno,
sul mare tutto l’anno, sul porco tutto l’anno, sulla sensazione
fantastica (che mai un nordico potrà provare) di tornare a casa e
mangiare le cose belle e buone della propria terra, del proprio orto,
del proprio porco. Una melassa insomma, che tra l’altro non
c’entrava assolutamente niente con la polemica.
A farla breve, nel
discorso, “gun jer vamp e nat fuoc” (uno era fiamma e la
controparte era fuoco), nel senso che entrambi dicevano cose senza
senso. Non sono contrario alle opere nostalgiche ma pretendo che
quell’opera abbia una conseguenza costruttiva. Io ed un mio amico
discutiamo spesso di quanto lui sia romantico e sentimentale nel
parlare di Sud e di quanto io sia più schietto ed asciutto, un po’
più crudo. Io però rispetto la sua vena perché alla fine di ogni
suo discorso c’è qualcosa di costruttivo: prima ti fa piangere ma
poi ti da una possibile soluzione.
Detto ciò capirete che la mia
idea di Sud e l’idea di Sud che andrò a cercare con La Calata è di tipo pratico, fattivo, con un sottofondo nostalgico ma
produttivo. Se la nostra unica arma continua ad essere la presunzione
di venire dal posto più bello della terra legata al vittimismo per
quanto questo posto sia martoriato, mai ci sarà sviluppo e mai
verremo presi sul serio.
Inizierei col dire che il meridione
d’Italia non è “il” luogo nel mondo ma “un” luogo nel
mondo. Simile a tanti altri, migliore di tanti altri, peggiore di
tanti altri. Siamo abituati a fregiarci di una certa esclusività,
certe volte infondata, molte volte edificata sui sentimenti, alcune
volte giusta. Ridimensionarci sarebbe un buon primo passo.
Paradossalmente, però, il meridionale vive una contraddizione in
termini molto forte: è capace di osannare (immeritatamente) ed al
tempo stesso condannare (immeritatamente). Vive tra estremizzazioni e
generalizzazioni improduttive, senza mai analizzare la realtà ed i
dati di fatto.
Banfield nel ’58 scrisse un libro
molto controverso sulla società meridionale, studiando gli abitanti
di Chiaromente (Montegrano nel suo libro Le basi sociali di una
società arretrata), delineando caratteristiche che purtroppo sono
attualissime anche nel 2016 e formulando, alla fine, il concetto di
“familismo amorale”. La società descritta nel libro era
imbrigliata, impacciata in uno stallo produttivo ed economico che la
rilegava ad una fascia molto arretrata. In effetti se l’emigrazione
da Sud è ad un livello altissimo è perché la mancanza di
opportunità nasce da un contesto culturale non adeguato al fine di
creare prospettive.
Per non andare troppo indietro nella storia
analizzerei ciò che successe negli anni settanta in Italia. Il boom
economico ha creato due tronconi occupazionali, quello industriale e
quello pubblico. Le grandi opere, la cementificazione, l’adolescenza
della Repubblica e la creazione di tutte le ramificazioni
amministrative hanno reso possibile una immensa disponibilità di
posti di lavoro. Le campagne si svuotano, l’artigianato scompare, i
posti pubblici rendono florida l’economia familiare. Sarei
politicamente scorretto se dicessi che la maggiore concentrazione di
posti pubblici fu a Sud e per i meridionali e fu usata come
contentino o riscatto per tutte le ruberie fatte a Sud dal 1861 al
1948? Forse sì ma non mi tange. Questo fenomeno ha cambiato la
concezione di lavoro, azzerando completamente una qualsivoglia spinta
di intraprendenza. Ha staticizzato l’economia circoscrivendola allo
stretto contesto familiare, avendo come risultato, dopo 40 anni, una
società in stallo, con una bassissima concentrazione di imprese
private, senza un substrato economico di sviluppo, ricca ma con figli
poveri. Anche in questo caso il Sud si presenta come una
contraddizione in termini: la situazione d’oro degli anni ’70 ha
partorito dei nipoti senza futuro ma che restano a galla grazie alla
rendita degli stessi anni ’70.
Che Sud ci ritroviamo adesso?
Prima
di tutto una terra spopolata, spogliata dei migliori, che fanno
brillanti carriere altrove ma che qui non avrebbero opportunità. Un
terra disequilibrata dal punto di vista dei servizi dello Stato, dove
i diritti sono lasciti, regali ed i doveri sono opzionali. Una terra
disomogenea dove si alternano aree di forte sviluppo sociale ed
economico ed aree totalmente dimenticate con indicatori al di sotto
dello zero. Il fatto che però ci sia poco (o niente), non è sempre
negativo. Nelle conclusioni cercherò di spiegare perché.
Un’analisi prettamente economica si
rivela impietosa. La situazione sociale però merita un
approfondimento. A Sud si riesce a conservare uno stato sociale (non
propriamente detto, ndr) che da come risultato quello che chiamo
“paracadute”. La concezione di famiglia, amicizia e mutuo
soccorso, stabile, forte, imprescindibile, a volte estremizzata (con
naturali eccezioni), garantisce una certa tranquillità mentale.
Molte volte sono formalità, che si rivelano però utili. È come
avere fede ed essere sicuri che nonostante tutte le difficoltà si è
idealmente attaccati ad una corda che evita il baratro. Un concetto
abbastanza complicato da spiegare ma che chi vive, od ha vissuto,
fuori, riesce a capire molto bene perché in effetti è uno status
che non è così presente ed attivo nell’Italia centrale o
settentrionale e che scema inesorabilmente nelle culture nordiche. Ne
viene fuori una concezione più attaccata e garantista che produce
del positivo psicologico. Ne consegue una “sensazione di casa”
difficilmente riproducibile altrove che ritengo non essere
paragonabile alla “sensazione di casa” nel resto d’Italia. Il
risvolto negativo di questa cosa è proprio quello di cui parla
Banfield nel suo libro. Queste forme di “familismo” ridurrebbero
o addirittura annullerebbero le possibilità associative e
cooperative tra persone non consanguinee.
Quale possibile chiave di sviluppo,
dunque?
Le valutazioni fatte in questo articolo
andrebbero approfondite ed arricchite in un’opera molto più ampia
e soprattutto da gente molto più competente di me. Io mi limito a
dare traccia delle motivazioni della mia scelta di lasciare Roma, una
carriera avviata, una vita “tranquilla” e tornare giù, andando
incontro ad una incognita. La mia analisi sociale ha partorito del
positivo e del negativo. Il positivo lo reputo una risorsa ed una
opportunità, il negativo un dato di fatto con cui sarebbe sbagliato
non confrontarsi. L’analisi economica tira fuori un quadro molto
negativo in cui la negatività, però, potrebbe essere virtù. Il
fatto che ci sia poco (o niente), ci pone di fronte ad una situazione
“vergine”, dove tutto è paradossalmente possibile (nei limiti
della realtà). Da dove passa dunque lo sviluppo del Sud? Dall’unione
del niente e di idee originali, esclusive, “roba da Nord”. Come
dice un mio caro amico a Sud ci vuole “grande impegno, grande
sacrificio, intraprendenza e buone idee” a cui io aggiungo contatto
con la realtà, strettissimo contatto con la realtà. Pensare di
cambiare il mondo qui sarebbe da psichiatrici. Credere di poter
creare qualcosa è realtà.